Storia dell'Arma dei Carabinieri - Quinta Puntata: I Carabinieri nell'Italia Unita
- Ottieni link
- X
- Altre app
Un passaggio cruciale nell’evoluzione normativa dell’Arma dei Carabinieri si registra con il Regio Decreto del 24 gennaio 1861, emesso nel contesto della ristrutturazione dell’Esercito dopo l’annessione al Regno di Sardegna delle nuove province italiane. Per la prima volta in un documento ufficiale, il Corpo riceve l’appellativo di “Arma”, sebbene il termine venga usato con qualche incertezza accanto alla denominazione tradizionale di “Corpo”.
In precedenza, la parola "Arma" indicava più che altro una forza militare o una distinzione interna, come nel caso dei Carabinieri a cavallo e a piedi. Lo stesso decreto alterna i termini: parla di “forza e composizione del Corpo” in un capitolo, ma in un altro si riferisce a “istituzione e prerogative dell’Arma dei Carabinieri Reali”. Solo con la legge sull’ordinamento dell’Esercito del 30 settembre 1873 si stabilisce definitivamente la dizione "Arma dei Carabinieri Reali", che nel 1946 diventerà quella attuale: Arma dei Carabinieri.
Il decreto del 1861 introduce diverse novità strutturali: viene creato un Comitato al posto del Comando Generale e nascono le Legioni, ciascuna con un proprio Stato Maggiore, composto da ufficiali con incarichi specifici (relatore, aiutante maggiore, pagatore, ufficiale d’amministrazione, medico, ecc.). Le Sezioni prendono il posto delle precedenti Suddivisioni.
Gran parte della struttura organizzativa resta però simile al precedente Regolamento del 1822, salvo l’eliminazione del capitolo sulle reviste mensili, poiché ora il controllo sul personale è affidato direttamente agli ufficiali dell’Arma, non più a figure esterne.
Il Comitato direttivo è composto da un Luogotenente Generale come presidente, da quattro Maggiori Generali, da un ufficiale superiore e due ufficiali subalterni. Il primo a presiedere è Federico Costanzo Lovera di Maria, già comandante del Corpo. Gli altri membri rappresentano le ex formazioni regionali (piemontesi, sarde, napoletane e siciliane) per facilitare l’integrazione del personale e delle strutture nei diversi contesti territoriali.
Il Regio Decreto istituisce 14 Legioni (13 territoriali più una per gli Allievi) e assegna al Comitato il compito di uniformare procedure, disciplina e servizi. Ogni componente del Comitato svolge ispezioni nelle Legioni per relazionare al Ministro della Guerra e proporre eventuali modifiche.
Il 31 ottobre 1861, con una nota ministeriale, due membri del Comitato – i generali Arnulfi e Serpi – vengono nominati Ispettori dei Carabinieri nel Meridione, rispettivamente a Napoli e Palermo. In questo modo, assumono temporaneamente le funzioni del Comitato nelle nuove province, gestendo le problematiche locali e riferendo a livello centrale.
La struttura dell’Arma inizia così ad essere diffusa su tutto il territorio del nuovo Regno, si articola in:
-
14 Legioni
-
36 Divisioni
-
103 Compagnie e Squadroni
-
191 Luogotenenze e Plotoni
-
Circa 1.600 Stazioni
Il personale conta 503 ufficiali, 3.868 sottufficiali (di cui 974 a cavallo), 13.078 carabinieri (di cui 3.323 a cavallo) e oltre 1.000 allievi.
La Legione Allievi e i criteri di arruolamento
Il 16 febbraio 1861 viene fondata a Torino la Legione Allievi, che prende il posto del precedente deposito di formazione. Per essere ammessi, i candidati devono avere tra 19 e 26 anni, saper leggere e scrivere oltre che avere condotta morale e familiare irreprensibile. Devono essere celibi o vedovi senza figli e non avere precedenti penali o disciplinari. Devono essere alti almeno 170 cm (172 per i Carabinieri a cavallo) ed avere adempiuto agli obblighi di leva (ove necessario)
La Legione Allievi ha il compito di formare i futuri carabinieri secondo i princìpi della tradizione e dell’efficienza operativa.
Negli anni successivi vengono emanati nuovi decreti che ampliano e modificano la struttura, aumentando il numero dei Carabinieri e radicando l'Arma in tutto il territorio italiano.
Le Sfide dell’Unità Nazionale
Il Regno d’Italia viene proclamato il 17 marzo 1861. L’antica “Armata Sarda” diventa il Regio Esercito Italiano, e l’Arma dei Carabinieri mantiene il suo ruolo prioritario.
Ma la giovane nazione attraversa un periodo turbolento: la morte di Cavour, nel giugno 1861, lascia un vuoto politico. L’élite liberale, che rappresenta solo il 2% della popolazione, deve costruire lo Stato unificato. Viene imposto un modello centralista, con leggi e codici uniformi, e viene esteso l’ordinamento amministrativo piemontese a tutta la penisola.
Nel frattempo, l’Arma è coinvolta in numerosi episodi critici. Nel 1862 ci sono attività cospirative in Veneto che vedono i Carabinieri in prima linea contro gruppi di separatisti, Nel 1864 scoppiano pesanti proteste a Torino contro lo spostamento della capitale a Firenze, mentre nel 1866 i Carabinieri fronteggiano una rivolta a Palermo (detta dei “Sette e mezzo”) che si trasforma in un’insurrezione armata. L’Arma, comandata dal colonnello Sannazzaro di Giarole, affronta combattimenti in città e provincia. In quell’occasione perdono la vita 53 Carabinieri, e molti altri sono feriti.
Nel 1866, l’Italia entra in guerra contro l’Austria (Terza Guerra d’Indipendenza). I Carabinieri partecipano con vari reparti in prima linea e con compiti di polizia militare. Si distinguono a Custoza, Condino, Monte Croce e altri teatri di battaglia.
Nel 1867, l’Arma ha un ruolo delicato nel fermare Garibaldi in due occasioni, dopo i suoi tentativi di attaccare lo Stato Pontificio. Il Tenente Pizzuti esegue il primo arresto a Sinalunga, con tatto e senza scontri. Il secondo “fermo”, a Figline Valdarno, è diretto dal Maggiore Camosso, che riesce a gestire l’operazione in stazione ferroviaria senza spargimento di sangue. Garibaldi, colpito dal comportamento corretto dei Carabinieri, si riconcilia con Camosso.
Le campagne contro il brigantaggio
L’unità politica dell’Italia, tra il 1859 e il 1870, incontrò forti opposizioni, soprattutto nel sud, nell’ex Regno delle Due Sicilie, dove la resistenza armata contro le truppe sabaude prese dimensioni rilevanti.
Coloro che vivevano quei tempi restavano colpiti sia dall’estensione che dalla durata delle rivolte, nonché dai rapporti degli ufficiali dell’esercito incaricati di soffocare gli insorti: il fenomeno venne genericamente chiamato “brigantaggio”. Tuttavia, il termine ha storicamente indicato esperienze molto diverse, non sempre riconducibili a forme strutturate di banditismo.
Il brigantaggio fu solo una delle espressioni del conflitto combattuto nel Mezzogiorno tra il 1860 e il 1870. E’ una forma tipica di violenza, diffusa in tutte le società rurali, dall’antichità fino al XX secolo inoltrato. Il banditismo del Mezzogiorno ne era solo una versione, per quanto pluri-secolare. Un attore sociale e criminale, capace di adottare bandiere politiche nelle grandi fratture del regno e di giocare un ruolo nelle lotte tra aristocratici, clero, fazioni e gruppi territoriali di Antico Regime. Il brigantaggio fu utilizzato dalla controrivoluzione borbonica durante le guerre della rivoluzione e dell’impero. Innanzitutto fu affiancato all’esercito controrivoluzionario del cardinale Ruffo nel 1799, poi utilizzato come forza irregolare nel Decennio francese. E così nel 1860, quando guerra e rivoluzione travolsero ancora una volta il regno, fu richiamato in servizio. I Borbone, contrastati da larga parte delle classi colte, del ceto medio e del notabilato locale del Mezzogiorno, lo promossero per animare una resistenza armata al nuovo stato italiano. Il brigantaggio pertanto fu una delle espressioni politiche, sociali e criminali della crisi dell’unificazione nel Mezzogiorno, condizionato da eredità e tradizioni di lungo periodo.
Non si nega che le insurrezioni avessero anche motivazioni sociali: gli effetti della soppressione della feudalità, la vendita dei beni ecclesiastici, le questioni sulle terre demaniali diedero corpo alla partecipazione dei contadini. Allo stesso tempo, col passare degli anni, il carattere politico si affievolì e aumentarono gli aspetti criminali del fenomeno.
Alcuni esponenti del Governo centrale erano coscienti delle difficoltà che l’annessione del Sud avrebbe comportato e suggerivano prudenza nel processo di unificazione. Tuttavia, dopo il 1860, la combinazione di oppressione, legittimismo borbonico e la necessità di legittimazione internazionale spinsero chi governava a considerare le nuove province meridionali come la fonte più pericolosa di dissenso interno, e a volerle integrare nel Regno a ogni costo.
Le conseguenze furono dure: imboscate, saccheggi, profanazioni dei cadaveri da una parte; fucilazioni sul posto, arresti familiari, incendi di villaggi sospettati, persecuzioni indiscriminate dall’altra. La popolazione contadina pagò un prezzo altissimo in vite, ma anche lo Stato affrontò profonde lacerazioni: vecchie diffidenze, tensioni latenti e nuovi moti.
I Carabinieri si trovarono in mezzo, come vittime e come protagonisti. Nel periodo invernale 1862‑63, nel territorio di Napoli, il VI Gran Comando mobilitò un vasto spiegamento: decine di reggimenti di fanteria e granatieri, battaglioni di bersaglieri, unità di cavalleria, supportati da artiglieria e genio; fra questi oltre seimila Carabinieri, pari a più di un terzo dell'intera forza dell’Arma.
Durante la lunga campagna, essi ricevettero numerosi riconoscimenti: su tutte le ricompense al valore – comprese medaglie e croci – una quota rilevante andò ai Carabinieri, sebbene fossero una parte relativamente piccola delle forze impiegate.
Il loro impegno fu duplice: da un lato operazioni preventive, con ronde nelle campagne, raccolta di informazioni e arresti di chi aiutava le bande; dall’altro partecipazione ai combattimenti veri e propri. Le condizioni per loro erano dure: territori impervi, scarsa conoscenza del terreno, equipaggiamento spesso inadeguato e problemi di approvvigionamento.
I briganti facevano uso delle tattiche tipiche della guerriglia: colpire dove l’avversario era vulnerabile, sorprendere, agire rapidamente, sfruttare la copertura del territorio e avere l’appoggio popolare. Assaltavano paesi, saccheggiavano case di liberali, attaccavano diligenze e messaggeri, organizzavano imboscate. Le loro formazioni si muovevano con agilità, assemblandosi e sciogliendosi velocemente, ritirandosi nei rifugi naturali quando necessario.
Verso la fine del 1861 fu inviato a Napoli il Generale La Marmora, che ebbe sia il comando militare nella zona sia un ruolo civile come prefetto. Con lui l’azione si fece più diffusa e capillare; vennero prese norme più severe per evitare che le bande approfittassero di piccoli presidi sparsi; ma la scarsità di truppe e le cattive condizioni sanitarie ostacolavano grandi manovre.
Nel dicembre 1862, il Parlamento portò il tema in Aula: si decise di istituire una commissione d’inchiesta guidata dai deputati Massari e Castagnola – nota come “inchiesta Massari”. La relazione conclusiva, adottata nel maggio 1863, attribuiva cause antiche – morali e sociali – e contingenti, e indicava come rimedio un’intensificazione dell’azione militare e provvedimenti legislativi speciali.
Il 6 agosto 1863 fu varata la legge Pica, che rese permanente la repressione: essa trasferiva ai tribunali militari la giurisdizione sui briganti, stabiliva la pena di morte per chi opponeva resistenza armata, il carcere duro a vita per chi stava passivo, e introduceva il domicilio coatto per vagabondi, sospetti e collaboratori. Arresti di massa, esecuzioni rapide, distruzione di abitazioni, controllo del cibo e del bestiame, persecuzioni di civili divennero strumenti comuni per spezzare la resistenza.
Durante l’estate furono create zone militari, in particolare sotto il comando del Generale dei Berasglieri Emilio Pallavicini di Priola, che adottò tattiche di sorveglianza continua, mobilitò le autorità locali e rese le operazioni sempre più aggressive e sorprendenti, fin nei rifugi dei briganti.
Solo il 18 gennaio 1870 il governo dichiarò sciolte le zone militari nel Sud, segnando formalmente la fine del brigantaggio come fenomeno politico-organizzato. Qualche focolaio si rialzò, per esempio in Basilicata, ma ormai si era perso il sostegno popolare; la guerriglia si era trasformata in semplice banditismo.
Tra i Carabinieri emersero figure di spicco come il Capitano Francesco Allisio, che fece strage di una banda a Martina Franca; il Capitano Salvatore Frau, che sconfisse una banda in grotte impervie; e soprattutto Chiaffredo Bergia, partito da semplice carabiniere nel 1860, che guadagnò fama e promozioni per le sue azioni contro i briganti – infiltrazioni camuffate, azioni rischiose, arresti, uccisioni – ricevendo medaglie, menzioni onorevoli e decorazioni. Alla fine fu promosso Capitano e gli fu intitolata una caserma nella Puglia. Morì a Bari nel 1892 per polmonite.
- Ottieni link
- X
- Altre app
.jpeg)
Commenti
Posta un commento