Lo strano caso del caso Moro - parte 2

  di Davide Carrozza - carrozzad@gmail.com

Lo scorso 13 Gennaio un mio articolo sulla puntata di Report dedicata al così detto caso Moro, è stato ripreso e pubblicato da Sinistra in Rete (LINK), una sorta di archivio molto popolare di articoli e documenti per la discussione politica. Come era lecito aspettarsi, numerosi commenti all’articolo hanno ripreso molte delle teorie complottiste che aleggiano da decenni sul caso Moro (su questa definizione torneremo), con lo scopo di screditare le tesi da me sostenute. Anziché rispondere ai singoli commenti preferisco affrontare le questioni poste con un altro articolo, approfittando delle sollecitazioni per scrivere anche di altre questioni rimaste ancora insolute, sulla puntata di Report e su tutta la vicenda. Malgrado sia difficile negare la preparazione e l’erudizione dei miei detrattori, appare evidente che la letteratura saggistica di cui si sono nutriti sia interamente di natura dietrologica e che mai si siano imbattuti in altro tipo di volume sul tema. A loro parziale difesa c’è da dire che tale letteratura, che nei decenni è divenuta un vero e proprio genere, è purtroppo molto vasta e si è riprodotta in serie grazie all’incredibile successo editoriale, trovando terreno altrettanto fertile in ricostruzioni cinematografiche fantasiose, documentari, programmi televisivi, fino a coinvolgere l’insospettabile Sen. Pellegrino, presidente della Commissione Stragi, convinto durante un’audizione che davvero si verificò l’irruzione nel paesino di Gradoli, frutto invece della suggestione cinematografica del film “Il caso Moro “di Giuseppe Ferrara dell’86. Tuttavia, non c’è bisogno di essere un esperto del tema per capire che ciò che risponde alle esigenze di natura economica, spesso non coincide con i tempi lunghi e farraginosi della ricerca storiografica fine a se stessa, spesso fiaccata dall’assenza di fondi e addirittura a volte perseguitata, come dimostra il caso di Persichetti (LINK). Proverò quindi a riassumere a grandi linee le questioni che gli avventori di Sinistra in Rete mi hanno posto sperando di essere il più esaustivo possibile e venendo incontro alle loro richieste dirette di “auspicabili spiegazioni”.



Via Monte Nevoso Quando l’1 Ottobre del ’78 i carabinieri del nucleo speciale antiterrorismo irrompono nel covo delle BR di Milano in Via Monte Nevoso si trovano davanti a qualcosa di completamente inaspettato. Durante la sua audizione in Commissione Stragi il Generale dell’Arma Nicolò Bozzo che presiedette le operazioni afferma “In quell’appartamento c’era un mare di materiale: mai vista una cosa del genere! C’era tutto l’archivio delle Brigate rosse, dietro una tenda nascosta da un finto armadio a muro, con tutti i faldoni allineati quasi si trattasse di una ditta di spedizioni. Per eseguire la verbalizzazione di tutto il materiale repertato e poi iniziare la perquisizione dei mobili e dei muri sarebbero stati necessari non meno di quindici giorni” Per tutto il corso delle indagini, è evidente che i carabinieri non abbiano alcuna idea dell’importanza di quel covo, in realtà fino alla fine non erano nemmeno sicuri si trattasse di un covo, fino a quando una delle chiavi del mazzo del borsello smarrito dal BR Lauro Azzolini e rinvenuto a Firenze, aprirà magicamente uno dei portoni di Via Monte Nevoso. A testimonianza di questo, durante la stessa audizione, lo stesso Generale ci dice come quasi fino all’ultimo il Gen. Dalla Chiesa, capo di tutto il nucleo anti-terrorismo nazionale, non diede molto peso all’operazione Monte Nevoso, impegnato com’era su un altro fronte che era convinto lo avrebbe portato a stanare tutta la Direzione Strategica delle Brigate Rosse grazie ad un presunto infiltrato (cosa che poi si risolse in un nulla di fatto). Con il tempo tali affermazioni, de relato, hanno portato a parlare della così detta teoria del pesce più grosso alla base poi di molte elucubrazioni. La verità è che non si avevano notizie certe sul covo di Via Monte Nevoso fino alla scoperta del covo stesso. Ascoltando le audizioni di tutti i collaboratori di Dalla Chiesa si ha una percezione di cosa significasse lavorare per il nucleo antiterrorismo, aspetto presumo totalmente assente nella letteratura dietrologica. Come i brigatisti anche i carabinieri avevano i loro covi, le così dette basi di copertura. Infatti, in perfetta logica guerrigliera e anti guerrigliera i pedinamenti potevano essere reciproci, entrare e uscire da una caserma quindi non era il modo migliore per condurre operazioni così delicate. Il giorno dopo l’irruzione il Gen Dalla Chiesa ordina al Gen Bozzo di ritirare tutti gli uomini nelle basi portandosi dietro tutto il materiale da cui si possono trarre spunti operativi, ordine che verrà però eseguito solo 5 giorni dopo. Teniamo presente che nel covo non c’è soltanto parte del famoso Memoriale e delle lettere di Moro ma l’intero archivio delle BR a partire dal 1970, anno della loro costituzione; una quantità di materiale impressionante. Ma perché Dalla Chiesa dopo gli arresti e i primi accertamenti sul materiale ordina il ritiro del Nucleo, lasciando l’incombenza all’Arma territoriale? E’ bene rispondere a questa domanda perché il dietrologo incallito sarebbe capace di sospettare persino di Dalla Chiesa. Ci facciamo rispondere dallo stesso Bozzo: Il giorno 2 ottobre sono venuto a conoscenza che il comando della legione di Milano stava redigendo un rapporto disciplinare contro l’operato mio e dei miei collaboratori. Io ho chiamato il generale Dalla Chiesa a Roma, dove egli era rientrato la sera del 1° ottobre, e gli ho detto cosa stava succedendo; lui mi ha risposto di ritirare tutto il personale nelle nostre basi. La fretta con cui si deve svolgere l’operazione è motivata quindi dalle acredini mai sopite fra l’Arma e il nucleo anti terrorismo confermate da più fonti e testimoniate da questo rapporto disciplinare. In 5 giorni comunque gli uomini di Dalla Chiesa sono talmente veloci da ultimare miracolosamente il lavoro di schedatura, sono impossibilitati però a eseguire un’ispezione approfondita, impegnati come sono a schedare ciò che è stato già trovato. Ecco spiegato quindi il motivo del mancato ritrovamento e schedatura dell’intero Memoriale nel ’78.

Il Memoriale Il così detto memoriale di Moro, un pò impropriamente così definito, non è altro che l’elenco delle risposte estremamente prolisse e articolate (ricordiamo le convergenze parallele oggetto dell’ironia di Rino Gaetano) che Moro fornisce durante l’interrogatorio alle BR. La parte più consistente del memoriale (oltre 400 pagine, fotocopie di originale scritto a penna) viene ritrovata solo 12 anni dopo, il 9 Ottobre del 1990, durante dei lavori di ristrutturazione proprio in Via Monte Nevoso, in quello che fu il covo principale delle BR. Le BR avevano accuratamente nascosto tale preziosissimo materiale nell’intercapedine ricavata dietro un termosifone, insieme ad armi e denaro. La polemica che subito ne derivò diede adito a innumerevoli elucubrazioni, infuocando anche la scena politica con la manina di Andreotti che diventò la manona di Craxi che nell’immaginario collettivo si erano rese protagoniste di quella ingerenza. Sul presunto riferimento a Gladio contenuto in quelle carte rimando all’articolo precedente a questo, limitandomi a dire che Moro non parlò mai di Gladio nel suo memoriale. Ancora una volta i neofiti dell’argomento non conoscono o evitano di approfondire il modus operandi delle Brigate Rosse perché come spesso accade l’approfondita conoscenza del fenomeno brigatista potrebbe smontare o deviare le tesi dietrologiche. Questo ci porta alla prossima questione: Perché le BR decisero di nascondere il memoriale? Negli stessi giorni diverse basi brigatiste erano cadute, non sempre per mano della polizia. Oltre all’ovvio dispiegamento di forze derivante dall’epilogo del sequestro Moro, anche eventi accidentali avevano dimostrato la necessità di dover nascondere i documenti dal peso politico più specifico, trattandoli al pari di armi e denaro. In seguito all’irruzione casuale di un vigile urbano o di un vigile del fuoco, capitava che venissero trovati documenti di un certo peso in bella vista su un tavolo o su un divano. La storia delle BR dimostra che l’organizzazione, fatta soprattutto da guerriglieri autodidatti imparò sempre dai suoi errori, come avvenne ad esempio quando dopo la caduta della base di Via Boiardo nel ’72 gli inquirenti ritrovarono un volantino di rivendicazione di un’azione scritto in anticipo rispetto alla stessa. Da quel momento le BR scrissero le loro rivendicazioni sempre e soltanto dopo aver colpito. Nel 1998, 18 anni dopo l’eccidio di Via Fracchia a Genova, gli inquirenti rinvennero dei volantini sepolti nella terra in un giardino non distante dall’appartamento tristemente noto. Questo modus operandi è perfettamente in linea con la logica della guerriglia metropolitana, lo spiega sempre il Colonnello Bozzo in audizione alla Commissione Stragi Agivano così perché mettevano sempre in conto la scoperta “della base”, con la quale però non doveva finire l’attività di studio e di propaganda. Pertanto avevano bisogno di frazionare il materiale documentale fra più basi o anche, all’interno della stessa base, in posti diversi. Inoltre, la differenza fra la parte del memoriale più lettere rinvenuta nel ’78 e la parte nascosta si evince dalla stessa natura delle due: la prima è dattiloscritta, frutto cioè di un lavoro di ristesura e analisi in atto, la seconda è fotocopiata dall’originale scritto a penna da Moro, quindi in qualche misura più prezioso. C’è da dire, è ciò è ancora più importante, che durante le udienze del Moro Uno dell’82 i brigatisti chiesero formalmente di allegare agli atti le fotocopie degli originali del memoriale convinti che il covo fosse stato perquisito da cima a fondo e che fossero state ritrovate anche le 420 pagine nascoste. Essi continuarono a denunciare, nel corso di tutto il decennio 80, la mancanza di quel materiale, armi e denaro compresi, senza mai essere presi sul serio. La letteratura dietrologica però, non sembra essere molto interessata alla storia processuale del “caso Moro”, ovvio quindi che questo particolare sia sfuggito.

Il compromesso storico Nella vulgata mainstream il rapimento di Moro, sponsorizzato e diretto da forze occidentali CIA, NATO e gli eterni servizi segreti, sarebbe stato condotto e portato al tragico epilogo per impedire la formazione di un governo DC-PC e il conseguente spostamento dell’equilibrio mondiale di Yalta, frutto del compromesso storico. Molte evidenze smentiscono questo impianto narrativo: 1) Il 4 Novembre 1977 Moro ricevette l’ambasciatore degli USA Gardner e chiese esplicitamente aiuto alla CIA per contrastare il terrorismo a suo dire stimolato e alimentato da forze comuniste, in particolare cecoslovacche. Moro era infatti convinto che la crescita esponenziale del PC, arrivato alle elezioni dell’anno prima ai massimi storici, era dovuta proprio al dilagare del terrorismo. Ristabilire l’ordine pubblico quindi, magari con l’aiuto prezioso degli USA, avrebbe ridimensionato le mire governative del PC. Le richieste di Moro furono prese in serissima considerazione dall’amministrazione americana, per tutti i dettagli rimando al volume dello storico Giovanni Ceci La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019. 2) Il governo che nacque proprio il 16 Marzo ’78 con la “non sfiducia” di comunista aveva molto poco o quasi niente, nessun ministro, nessun sottosegretario, qualche punto programmatico concordato fra Moro e Berlinguer. Del resto dopo quel 34% qualche concessione bisognava pure farla. Proprio Gardner, in un’intervista alla Stampa infatti ci spiega:« Io sono un anticomunista viscerale. E anche Moro non voleva i comunisti nel governo. Lui era molto furbo. Li prese nella maggioranza, senza dare loro ministeri, per farli corresponsabili in scelte impopolari. L’obiettivo era quello di logorarli. E ci riuscì: nel 1979 il Pci cominciò il suo calo elettorale e il suo declino» Un quadro più ampio quindi ci restituisce un Moro calcolatore e spietato che attua la strategia del compromesso non come atto di “solidarietà nazionale” ma come strumento per il mantenimento del potere e il logoramento dell’avversario, calcoli politici molto lungimiranti quindi, che anticiperanno in qualche modo la storia mentre si entrava nell’ultimo decennio di vita del comunismo. Con questo non lo si vuole mettere in cattiva luce, ci mancherebbe altro! (5 volte presidente del consiglio, padre costituente e illustre accademico). E’ indubbio però che in seguito alla sua tragica vicenda ne sia derivata nella cultura popolare una santificazione che rende difficile un quadro d’insieme. Anche lui, essendo innanzitutto un politico faceva calcoli politici. 3) I rapporti fra i comunisti d’Italia e l’amministrazione USA alla fine degli anni ’70 erano idilliaci. Molti dirigenti PC fra cui Sergio Segre e Luciano Barca avevano rapporti cordiali e di collaborazione con l’Ambasciata Americana fin dal ’75. Sappiamo anche di un viaggio di Giorgio Napolitano negli USA proprio durante il sequestro Moro, invitato a tenere alcune lezioni in 3 prestigiose università (Princeton, Yale, Harvard). Nel ’77 l’amministrazione Carter autorizzò l’apertura dell’ufficio corrispondenza dell’Unità a Washington e sappiamo che addirittura Berlinguer fu invitato negli USA nel ’78, viaggio poi venuto meno probabilmente per via dell’epilogo del sequestro Moro. In politica nulla si fa per nulla si sa, allora quali i vantaggi reciproci di ciò? Per il PC l’ambizione di diventare finalmente forza di governo doveva ovviamente passare attraverso il bene placito degli americani; i comunisti cominciarono quindi a sondare il terreno sulle reazioni e a dare le dovute assicurazioni in caso di scalata al potere, ad esempio la vendita di alcune aziende IRI non strategiche. Da parte americana le parole d’ordine del segretariato di Berlinguer suonano molto dolci: eurocomunismo e compromesso storico, meglio di così! Per ulteriori approfondimenti su questo argomento rimando al già citato volume Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera. Paolo Persichetti – Deriveapprodi 2007.

Ma perché tutto questo complottismo allora? A chi conviene il complottismo e la dietrologia, cominciati praticamente un minuto dopo il ritrovamento del cadavere di Moro e continuati ininterrottamente per 46 anni fino a due domeniche fa con la puntata di Report? La risposta è tanto semplice quanto chiarificatrice, ecco perché la dietrologia non accenna a spegnersi: conviene a tutti! Conviene ai comunisti, sia ai contemporanei di Moro che ai successori post caduta del muro in tutte le accezioni. Insistere sulla tiritera dell’etero-direzione e negare l’autonomia delle BR significa evitare di dare una patente di autenticità alle Brigate Rosse e con esse a tutti i gruppi extraparlamentari che praticavano la lotta armata da sinistra, in questo modo il tentativo maldestro è quello di cancellare una parte della loro stessa storia ovviamente molto scomoda, un’onta che da sempre gli avversari politici di ogni epoca hanno sempre fatto notare. E’ sempre stato difficilissimo ammettere che militanti della stessa area politica, alcuni addirittura provenienti da famiglie di partigiani, in piena autonomia, abbiano tenuto sotto scacco il paese per un decennio. Come dimostra la puntata di Report è difficile farlo anche ora dopo oltre 40 anni. Conviene ai moderati, quelli che una volta si chiamavano democristiani, poi confluiti in Forza Italia insieme a tutti coloro che sono rimasti a gravitare in area centro, UDC, Renziani e compagnia. Ovviamente, questo mondo ha sempre sentito il bisogno di difendere le responsabilità politiche dato l’ovvio dato che scaturisce da tutte le sentenze e dai lavori di tutte le commissioni in 40 anni di lavori: Aldo Moro poteva essere salvato. La dietrologia serve a spostare le attenzioni, serve a fugare i dubbi su ciò che si sarebbe potuto fare e non si è fatto. Per questo motivo, (tranne in parte per la Commissione Stragi presieduta dall’On. Pellegrino), nessuno si è mai occupato della trattativa per salvare Moro che correva sull’asse socialista con una catena che partiva da Craxi e arrivava alle BR nelle persone di Valerio Morucci e Adriana Faranda, passando per Signorile attraverso Lanfranco Pace e Franco Piperno. Come si arenò quella pista? Perché il presidente Fanfani non fece quella famosa apertura che avrebbe potuto salvare la vita ad un padre costituente? E soprattutto…perchè Report, anzichè parlare di caffè e aperitivi, non ha fatto queste domande a Signorile? Conviene ai saggisti e alle case editrici, in 46 anni fiumi d’inchiostro e saggi a non finire hanno occupato gli scaffali delle librerie e delle case degli Italiani sapendosi riciclare e adattare ai tempi, dalla moto di Via Fani, ai killer infallibili, dalla sfinge a Moro trasportato da una villa all’altra con una Roma in stato d’assedio, ad abbronzarsi al mare per poi essere ricondotto in prigione. La seduta spiritica, Kissinger che minaccia Moro di morte, e poi la CIA, la NATO, il Mossad, fino al legame con l’assassinio di Kennedy. Da 46 anni i lettori più annoiati si trastullano con un filone fantascientifico, degno dei romanzi di Mario Puzo, come sempre quindi c’è anche lo sporco denaro a farla da padrone. Quando in occasione del quarantennale della strage di Bologna, il Manifesto si inventa una convergenza fra BR, NAR e servizi segreti intorno alla base di Via Gradoli, studiosi e ricercatori dicono basta e scrivono una lettera: Non se ne può più delle dietrologie sul sequestro Moro, di narrazioni complottiste costruite in spregio dei più elementari criteri logici, prive di correlazioni, del rispetto della cronologia, della verifica delle fonti, di de relato che mettono in bocca a defunti le affermazioni più improbabili e che ovviamente nessuno può confermare o smentire. Un gruppo di storici e studiosi, con origini, percorsi e orizzonti diversi, hanno detto basta. In una lettera aperta invitano la comunità degli studiosi e il mondo della comunicazione a non avallare più simili approcci e ripristinare il rispetto del metodo storiografico.

Il caso Moro non è un caso

Contribuisce ad avallare la superficialità e il pressapochismo la stessa eterna dicitura di “caso” Moro affibbiata agli eventi che vanno dal 16 Marzo al 9 Maggio ’78. Un caso è di per sé un mistero, un puzzle irrisolto, un appellativo che si presta a questioni insolute sulle quali basare dossier intriganti e scenari che poco hanno a che vedere con la ricerca storiografica. Il così detto “caso” Moro tale non è, proprio perché non è avvenuto per caso ma è il frutto, non solo ma soprattutto, della parabola criminale di un’organizzazione eversiva che nel rapire il presidente della DC ha inteso portare al livello più alto quell’attacco allo stato, arrivato gradualmente come frutto delle fasi storiche precedenti. Qualcosa che avviene “per caso” è qualcosa di difficilmente comprensibile, che sembra nascere dal nulla, dalla contingenza degli eventi, dalla congiunzione astrale di pianeti. Non è così in quasi tutti gli avvenimenti storici men che meno nella vicenda Moro, fra le vicende più complesse del secolo scorso che come tale non si può liquidare con effetti speciali e sensazionalismo ma è comprensibile solo con uno studio approfondito delle fonti e del contesto storico (almeno a partire dalla strage di Piazza Fontana). Dal momento che la vicenda del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro rappresenta il culmine non solo della storia delle BR, ma di tutto il fenomeno della lotta armata in Italia, trattarlo così significa oscurare la verità, confondere, contribuire alla crisi dilagante dell’approfondimento. La vicenda è stata oggetto di 5 processi, dal 1982 al 1996. 5 processi hanno prodotto, in virtù dei 3 gradi di giudizio, 15 sentenze, centinaia di migliaia di pagine. Uno dei commenti al mio articolo precedente è stato: da quando in qua le sentenze si prendono come oro colato e si accettano come argomento per sostenere una tesi. Con tutto il rispetto per il lavoro dei magistrati, a rigor di logica può anche accadere che la verità giudiziaria non sempre coincida con la verità dei fatti…ma può accadere per 15 volte sullo stesso argomento?


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