"La conquista di Roma" di Matilde Serao. La Basilicata in scena nella letteratura dell'Ottocento.
Quando nel 1885 Matilde Serao pubblicò La conquista di Roma, era già una delle penne più acute e originali dell’Italia postunitaria. Figlia di un giornalista greco rivoluzionario e di una giovane napoletana di buona famiglia, aveva conosciuto la povertà, la precarietà, la fatica del lavoro intellettuale e la tenacia necessaria per imporsi in un mondo dominato dagli uomini. Il romanzo risente di questa biografia intensa: ogni pagina è percorsa dalla fame di affermazione, dall’ansia di riscatto e dalla lucidità – spesso spietata – con cui l’autrice guarda alla costruzione della nuova Italia.
Il protagonista è un giovane avvocato lucano, Francesco Sangiorgio, deputato proveniente dal Meridione, che arriva attraverso un viaggio in treno che evoca un esodo diverso da quello di migliaia di lucani. Un viaggio in treno che è insieme ansia e riscatto. E Sangiorgio è il tramite attraverso cui l’autrice compie la sua indagine morale. Sangiorgio assomiglia a molti politici del tempo – e forse anche a quelli di oggi: pieni di talento ma esposti alla seduzione del potere e alla tentazione del compromesso.
La Basilicata, in La conquista di Roma, non è soltanto il luogo di nascita di Francesco Sangiorgio: è la sua ombra, la sua fibra più profonda, la sua moralità incarnata. Non appare spesso nel romanzo, ma ogni volta che affiora lo fa con una potenza evocativa capace di ridisegnare l’identità del protagonista e di gettare una luce obliqua sulla frenesia della capitale. Serao la tratteggia con quella sobrietà che appartiene alle verità radicate: poche parole, ma precise, come fenditure attraverso cui passa una luce antica.
Quando Sangiorgio arriva a Roma, porta con sé la memoria aspra della sua terra, un ricordo che non è semplice nostalgia, ma un principio etico. Serao lo dice con un’immagine fulminea – e per questo indimenticabile – quando osserva che egli recava “dalla sua provincia lucana la gravità silenziosa” che lo distingueva da tutti gli altri giovani pronti a giocarsi l’anima pur di ottenere un seggio o una protezione. Quella “gravità” non è solo timidezza o rigore: è l’impronta di una terra dove le parole vanno pesate e dove la dignità è spesso l’unico lusso possibile.
Ogni volta che Sangiorgio richiama alla mente la sua gente, è come se il romanzo rallentasse per un istante, concedendo al lettore uno sguardo dentro il cuore resistenziale della Basilicata. L’autrice afferma che egli ricordava “le lotte e i digiuni della sua gente umile e tenace”, un’immagine che restituisce una regione fatta di passi lenti ma ostinati, di sacrifici quotidiani che forgiano caratteri più che destini. Non c’è compiacimento né pietismo in queste parole: la Basilicata non è tratteggiata come una terra misera, ma come una terra forte, asciutta, educatrice alla sopportazione e alla serietà.
È proprio questa forza che lo tormenta mentre cerca di farsi strada a Roma. La capitale, con i suoi salotti chiassosi, le anticamere gremite, le alleanze improvvisate, appare come un teatro di maschere; la Basilicata, invece, è il volto autentico che Sangiorgio non riesce a dimenticare. Per questo, quando Serao scrive che “in Basilicata la politica è un bisogno di dignità prima che di potere”, non sta solo descrivendo un tratto locale, ma sta contrapponendo due concezioni opposte dell’agire pubblico: da un lato una politica vissuta come servizio e responsabilità; dall’altro una politica vissuta come strategia di ascensione personale. Il giovane deputato, inconsapevolmente, dovrà tradire la sua origine e la sua indole per farsi strada nella politica ?
Più Roma lo assorbe, più questa distanza lo lacera. Nei momenti di solitudine, quando il rumore dei corridoi parlamentari si spegne, Sangiorgio avverte il richiamo della sua terra come una voce severa e lontana. Pensa alla “piccola patria lontana da ogni ascolto”, e sente quasi il peso del dovere che lo vincola a quella comunità che lo ha mandato nella capitale con speranza e diffidenza insieme. Roma lo chiama con promesse luminose; la Basilicata lo richiama con la memoria del dolore e della responsabilità.
È in questo conflitto che il personaggio si fa vivo, umano, vulnerabile. Tra la purezza ruvida delle origini e la seduzione del potere nasce il vero dramma del romanzo: non la conquista di Roma, ma la conquista di sé. Sangiorgio cammina per le strade della capitale come se avesse dentro un duello continuo, tra la tentazione di diventare come gli altri e la paura di tradire quel mondo di montagne, di paesi immobili, di volti segnati, che continua a vigilare su di lui come una presenza muta ma inflessibile.
E gli altri deputati lucani ? «I lucani non facevano mai squadra, ognuno isolato nel suo orgoglio solitario.» chiosa Serao, «i deputati della sua provincia non si univano mai, ciascuno geloso dell’altro.» La triste (profetica) distanza della politica dalla realtà? O una amara condanna del destino di quella rigida etica ?
Serao, da grande narratrice qual era, trasforma così la Basilicata in una bussola morale, un luogo che non si abita più fisicamente ma che continua a essere abitato interiormente. La regione diventa un simbolo della parte più integra dell’Italia, quella che, pur lontana dai centri decisionali, resta ancorata a un’idea antica di onore e di giustizia. E in questa tensione tra Roma e la periferia, tra il rumore del potere e il silenzio delle montagne, tra la frenesia della conquista e la calma della coscienza, si gioca tutta la potenza narrativa del romanzo.
Una potenza che Matilde Serao conosceva bene, perché nella storia di Sangiorgio e della sua Basilicata c’è anche qualcosa della sua stessa storia: la fatica di chi arriva nella capitale con la severità delle origini sulle spalle, e deve decidere ogni giorno se lasciarla cadere o continuare a portarla come una medaglia invisibile.
Antonio Rubino

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