Elena Di Porto: Coraggio e Resistenza tra il ghetto di Roma, la Basilicata e... Auschwitz

La vicenda di Elena Di Porto non è solo la storia tragica di una vittima della Shoah, ma il ritratto di una donna anticonformista ed eroica, capace di essere antifascista nel ventennio fascista: nella sua semplicità e spontaneità la storia di Elena ha salvaguardato la sua figura da  da una memoria superficiale. Per molti anni oscurata o ridotta all'immagine della "matta di Piazza Giudìa", in realtà la sua esistenza, breve ma intensa, si snoda tra l'emarginazione sociale, la persecuzione politica e razziale, culminando in un atto di estrema solidarietà che la condusse alla deportazione. Elena Di Porto sfugge alle etichette del femminismo, sguscia ai tentativi di politicizzazione. La sua vicenda resiste anche alle strumentalizzazioni della storia per esigenze del presente. Ricostruire la sua storia, basata su documenti d'archivio e testimonianze, è un dovere della Memoria, un monito costante della Storia contro il pericolo dell'antisemitismo.

Elena Di Porto a Gallicchio (Pz) durante il confino nel 1941
foto pubblicata sul portale "Pietro Digitali"

Le Origini, il Temperamento e la Lotta Antifascista

Elena Di Porto nacque a Roma l'11 novembre 1912, da Angelo Di Porto e Grazia Astrologo, in una famiglia ebraica di umili origini, nel cuore pulsante dell'ex Ghetto. Cresciuta in un ambiente popolare, sviluppò un temperamento ribelle, la sua irruenza e la sua spontaneità la portarono spesso a scontrarsi con le convenzioni sociali e l'autorità. Sposata a soli 18 anni con Cesare Di Porto, ebbe due figli, Settimio e Angelo, ma non tardò a separarsi dal marito, una scelta di indipendenza decisamente inusuale per l'epoca. Gli scontri con il marito, specie quando questi si fermava all'osteria piuttosto che andare a lavorare, valsero ad Elena nomignoli e chiacchiere sui suoi comportamenti, considerati al limite della salute mentale.

Il suo spirito battagliero si manifestò precocemente in una viscerale opposizione al fascismo, ben prima dell'introduzione delle leggi razziali del 1938. Non si trattò di un antifascismo ideologico, ma di una reazione istintiva e morale ai soprusi e alle ingiustizie. L'episodio più noto, che le valse l'attenzione del regime, avvenne il 14 maggio 1940: Elena intervenne a Piazza Giudìa in difesa di un anziano ebreo aggredito da una squadraccia fascista per essere stato sorpreso con un giornale "non gradito" (era L'Osservatore Romano). Ne seguì una colluttazione che si concluse con il suo arresto.

Sul fascicolo di Elena alla Questura di Roma viene annotato: "Vigilata perché di sentimenti avversi al regime e quale squilibrata di mente. Essendo capace di turbare l’ordine pubblico si propone che venga avviata in località di concentramento." Elena non era una persona "politicizzata", è il suo modo di essere che la porta ad essere naturalmente contro i prepotenti. Il Questore di Roma Palma la qualifica non come "antifascista" nel senso politico del termine, ma come una ebrea a cui "non piacciono i fascisti".

Il Confino in Lucania e Nelle Marche

Prima del suo arresto per aver difeso l'anziano ebreo dal pestaggio, prima ancora del confino, Elena viene ricoverata alcune volte presso l'Ospedale Psichiatrico di Santa Maria della Pietà a Roma, è probabile che si tratti anche di ricoveri strumentali organizzati dalle autorità fasciste.

Successivamente, fu sottoposta al confino, una misura punitiva e di controllo che la allontanò dalla sua città per circa tre anni. I fascicoli d'archivio rivelano che fu confinata in diversi paesi del Centro-Sud Italia, tra cui località in Basilicata (allora Lucania: Lagonegro, Gallicchio, Terranova di Pollino, Pietrapertosa), e successivamente nelle Marche. Il confino, spesso destinato agli oppositori politici e ai dissidenti, per Elena rappresentò un periodo di ulteriore emarginazione e sofferenza, ma non ne piegò lo spirito. In Lucania, ad esempio, trovò alloggio presso la famiglia Cicchelli-Montemurro di Gallicchio (la foto la ritrae con i bambini di quella casa), nei suoi brevi soggiorni non frena il suo temperamento indomabile facendosi conoscere e stringendo relazioni con gli abitanti del posto.

Fu scarcerata solo pochi giorni prima dell'8 settembre 1943 e del precipitare della situazione con l'occupazione tedesca di Roma.

La Tragedia del 16 Ottobre e la Scelta Estrema

Tornata nella sua Roma, l'aurea dell'antifascista che si è conquistata e il ricordo dei graffi sul viso del fascista che aveva picchiato il vecchio ebreo, fanno di Elena una "capopopolo". Nella Roma che resiste contro i nazisti, Elena viene riconosciuta come simbolo della resistenza. 

L'aver contrastato, anche fisicamente, i fascisti la rende popolare tra gli aderenti alla Resistenza, ed è molto probabile che lei stringa rapporti con la resistenza romana.

Probabilmente, fu grazie a questi contatti che Elena riuscì ad essere tra i pochi ad avere sentore del piano nazista per la retata degli ebrei di Roma. 

Il 9 settembre 1943, un rapporto della Questura di Roma la menziona già alla guida di un gruppo di giovani ebrei che tentò di armarsi dando l'assalto ad alcune armerie, evidenziando il suo desiderio di resistenza armata. Attorno ad Elena circa un centinaio di ebrei si erano frettolosamente organizzati, riconoscendone la guida carismatica per questo tentativo di insorgenza collettiva di ebrei italiani. Un tentativo che finisce male, gli ebrei vengono fermati ma solo Elena Di Porto viene arrestata, probabilmente perchè si assume la responsabilità dell'azione.

Scarcerata alla fine di settembre, è ormai certa che presto vi sarà un rastrellamento nel ghetto con un arresto di massa degli ebrei. Ma nessuno è disposto a credere ad Elena "la matta". 

La sera di venerdì 15 ottobre 1943, Elena corse freneticamente da Trastevere all'ex Ghetto, tentando disperatamente di avvertire "la sua gente" del pericolo imminente. Le testimonianze la descrivono vestita di nero, scarmigliata e fradicia di pioggia, agitata al punto da non riuscire a esprimersi chiaramente. Purtroppo, nessuno le credette. Molti erano stati rassicurati dalla consegna dei 50 kg d'oro richiesti dal colonnello delle SS Herbert Kappler, e bollarono ancora una volta Elena come "la matta".

La mattina del 16 ottobre 1943, pur essendo riuscita a mettersi in salvo, probabilmente fuggendo attraverso i tetti della zona, Elena compì il suo gesto più eroico. Vide sua cognata con i tre nipotini (secondo altre fonti, i figli di sua sorella) in attesa di essere caricati sui camion nazisti. Di fronte all'impossibilità di aiutarli, decise di consegnarsi volontariamente ai tedeschi, salendo a bordo del mezzo per condividere il loro destino. "Sono anche io ebrea, fatemi salire!"

La Deportazione e l'Eredità Morale

Elena Di Porto fu radunata, come gli altri 1259 ebrei rastrellati, nel Collegio Militare di Roma. Il 18 ottobre 1943, fu caricata sul Convoglio n. 2 che partì dalla Stazione Tiburtina con destinazione il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Non fece più ritorno.

La data e il luogo preciso della sua morte rimangono ignoti, ma il suo nome è inciso indelebilmente nella storia della Shoah romana.

La storia di Elena Di Porto, ricostruita con tenacia, ad esempio, dal ricercatore e archivista Gaetano Petraglia nel saggio La matta di piazza Giudia, è la dimostrazione che la Resistenza non fu solo un fenomeno politico o intellettuale, ma anche un atto viscerale, popolare (e femminile) di dignità umana. La sua vita ci ricorda, con la forza della verità storica, che l'antisemitismo e ogni forma di odio e intolleranza possono annientare l'umanità.

Elena Di Porto fu una "matta" solo per chi non riusciva a comprendere la sua sana follia di fronte all'ingiustizia e il suo desiderio insopprimibile di libertà e dignità. La sua vicenda, ricordando quanto sostenuto da Marc Bloch affermando che "la storia è la scienza degli uomini nel tempo", ci insegna che le scelte individuali, il coraggio e la generosità di figure come quella di Elena vengono consegnate dalla storia al nostro presente. Queste storie devono costituire la base incrollabile della nostra memoria.

Antonio Rubino

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