Paralipomeni lucani sulla rappresentazione della morte* (II parte)

  di Antonella Pellettieri (dirigente di ricerca del CNR)

La paura e l’incapacità di comprendere scientificamente le calamità naturali, le epidemie, le pestilenze, le carestie e i dolori delle guerre portò gli artisti a rappresentare la morte con immagini macabre e a far riflettere sull’inutilità del raggiungere potere e ricchezza.


Sembra che proprio nella seconda metà del XIII secolo, iniziarono alcune particolari rappresentazioni della morte: ad esempio l’incontro fra i tre scheletri e i vivi viene affrescato nella cripta di Santa Margherita a Melfi ed è datato a cavallo fra il XIII e il XIV secolo. Senza entrare nella vexata questio se sia o meno rappresentato l’imperatore Federico II e due membri della sua famiglia – la moglie Jolanda d’Inghiltera, figlia di Giovanni di Brienne re di Gerusalemme,  e il figlio Corrado -, l’affresco è fra le più antiche raffigurazioni con questo tema.  Aiutàti dal buio della cripta che non è molto illuminata, gli autori vollero realizzare una scena che destava una sensazione di paura: da una parte vi sono tre personaggi che fronteggiano gli scheletri dall’aspetto molto spaventoso disegnati con un cranio gigantesco e un ghigno che mostra i denti e le orbite degli occhi vuote e scavate. Nel ventre, è affrescata una macchia verdastra che rappresentava  i vermi che mangiano il pasto rimanente nell’intestino. La cripta è situata vicino il cimitero di Melfi e la rappresentazione così violenta e poco cristiana della morte, si afferma e farà fortuna nell’arte. Risulta abbastanza semplice capire il motivo per il quale degli scheletri con il ventre in putrefazione sono vicini a tre persone vestite con abiti eleganti tipici di personaggi nobili, compreso il falco sul polso di un uomo aristocratico: la morte colpisce tutti con la stessa crudeltà, uomini, donne, adolescenti, ricchi, nobili, poveri e nullatenenti.

Affrescare degli scheletri furiosi e irati come se fossero vivi, crea sbigottimento nelle persone realmente vive della raffigurazione di Melfi che sembra quasi si ritraggano di fronte a queste figure mostruose, tranne l’uomo con il falco che sembra porsi a difesa della donna e dell’adolescente. Lo scheletro diventa la personificazione della morte, il morire diventa concretezza con queste rappresentazioni realistiche, la morte non appartiene più solo alla sfera spirituale e religiosa ma entra a far parte della quotidianità.

Dopo la peste nera, anche Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio si occuparono del tema della morte. In particolare, Petrarca scrisse un’opera su Il Trionfo della morte: di certo, la parola trionfo fa riferimento al carro del generale vittorioso che nell’antica Roma sfilava dopo le battaglie, acclamato al grido triumphe ma affiancato da uno schiavo che ricordava al vincitore che era un uomo e doveva morire. In quest’opera, Petrarca riflette sulla inevitabilità della morte per tutti gli esseri umani ma anche sull’insicurezza dell’ora della morte “… gli astanti saranno colpiti con sbigottimento anche maggiore poiché vedranno che colui che sapevano capace di abbattere gli altri, d’un tratto, o nel giro di poche ore d’agonia, cade a terra abbattuto …” con un esplicito riferimento alla peste nera.

Quest’opera influenza l’arte figurativa: trionfi della morte cominceranno a essere dipinti e affrescati in molte chiese e monasteri.

La morte venne rappresentata  “trionfalmente” anche in Basilicata. Giovanni Todisco presso il convento francescano di Santa Maria d’Orsoleo di Sant’Arcangelo, nel 1548, affresca ben 5 lunette del chiostro dedicandole alla Morte e ai suoi Trionfi.







Nella prima lunetta, uno scheletro incoronato e dotato di ali, cavalca un animale mitologico, probabilmente un drago. Uccide chiunque incontra sulla sua strada. L’affresco sembra diviso a metà da una diversa colorazione: la parte con gli scheletri sterminatori è totalmente nera e grigia, l’altra parte dove vi sono ancora persone vive sembra leggermente più colorata. Fra i vivi, l’attenzione cade su una donna che alza le braccia in alto in segno di resa di fronte alla Morte. In alto al centro, con colori uguali alla parte dell’affresco con i vivi, due angeli trasportano un’arca con le anime dei morti. Un grande cartiglio posizionato vicino la morte a cavalcioni sul drago recita “Io sono la morte degna de corona che ha possanza sopra ogni persona. Ogni homo more e tuto el mundo lassa, chi ha offeso Dio cun gran paura passa”.

Nella lunetta successiva la scena comincia con la morte che si abbatte come un flagello contro uomini della Chiesa. La morte è su un carro trainato da buoi con anelli alle narici. In un cartiglio svolazzante vi è scritto “Io sono la morte”, in un altro “porto il confalone soppa ogni persone”.

Collegata alla lunetta precedente, quella successiva comincia con uno scheletro che suona una grande tromba per avvisare che la morte sta arrivando, successivamente sono affrescati un papa, un vescovo e dei prelati che stanno per passare a miglior vita.

L’affresco successivo rappresenta alcuni religiosi, un pellegrino e un re circondati da scheletri e un cartiglio che recita “Tuti pensi fugir da me e io son contro”.


L’ultima lunetta è piena di cartigli che ci fanno comprendere chi sono i personaggi con cui conversano gli scheletri. In un cartiglio si legge “ Principe tieni la lama preparata che ognor per darti sono apparechiata”, in un altro “Tu conte stabil che si fiero convien te getti a terra e darmi larmi”. In quello sottostante “Tu viver sempre o duca non sperare falce alfin tutto vuole tagliare” e verso un personaggio femminile di particolare bellezza e regalità “ Cheste son le tue gemme alta regina con me convien tua belta inclina”.

La morte trionfa davvero in ogni suo aspetto e non risparmia alcun essere. La capacità espressiva di Giovanni Todisco si manifesta in ogni scena, ogni particolare è disegnato con molta precisione sia quando affresca i vivi sia quando rappresenta gli scheletri viventi che, confidenzialmente, conversano con re e regine, papi e vescovi, alti prelati e principi, conti e duchi e con persone del popolo.

In questa ridda di scheletri e ossa e teschi, vi è solo un momento nel quale si torna alla spiritualità e alla religiosità e a una sorta di compostezza: due angeli di particolare bellezza  sollevano verso il cielo un’arca affollata da piccoli corpi schiacciati l’uno contro l’altro. Simboleggiano le anime che sono trasportate nell’aldilà e sono tantissime a lasciare i corpi devastati da malattie e terribili pestilenze.

 

*La prima e la seconda parte di questo saggio sono pubblicati in A. Pellettieri, Fonti per la storia delle epidemie e rappresentazioni della morte. Paralipomeni lucani, in Impareremo il futuro fra ucronie e utopie. Il virus del 2020,  a cura di Antonella Pellettieri, Lagonegro 2020, pp. 199-214, volume pubblicato a Giugno 2020 con la fine del lockdown nella Collana Mensale del CNR e può essere considerato un istant book. Specifico la data perché meglio vengano comprese e interpretate alcune riflessioni scritte quando eravamo ancora molto spaventati, increduli e incapaci di comprendere quanto ci avrebbero cambiato quei tre mesi di allontanamento fisico e sociale dai nostri cari e dai nostri simili.  Ringrazio Antonio Rubino per avermi invitata a essere presente sul suo Blog con i miei scritti e Daniele Bracuto (www.brucomeladesign.it) per l’aiuto con l’elaborazione grafica delle foto.


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