Cosa si intende per "metodo" nell'ordinamento di un archivio*

di Carmine Venezia 

(Funzionario archivista presso l’Archivio di Stato di Avellino) carmine.venezia@beniculturali.it

Questo breve contributo sarà il primo di una serie destinata alla pubblicazione nel blog “Minuti di storia”, finalizzata all’illustrazione – in termini divulgativi – delle metodologie di ordinamento archivistico (storico, per materie, cronologico, alfabetico, classificazione decimale Dewey, provenienza liberamente applicata)

Un archivio storico comunale prima del riordino

Ci troviamo all’interno di un archivio, un ammasso di carte che siamo in qualche modo chiamati a governare. Ma quale metodo utilizzare per mettere ordine? Le idee non mancano: si potrebbero raggruppare tutti gli atti che trattano di un determinato argomento, oppure affidarsi ad un criterio puramente cronologico per la totalità delle carte oppure riunire il materiale per formato documentario (tutti i registri, tutti i faldoni ecc.). Ma qual è il metodo scientifico per ordinare dei beni culturali quali sono gli archivi?

A questa domanda si potrebbe rispondere che non c’è un metodo da ideare. Per meglio dire, la dottrina archivistica nel corso dei secoli ha faticosamente e definitivamente ratificato che il metodo di ordinamento di un archivio non può che essere quello adottato originariamente, qualunque esso sia: non si deve far altro, dunque, che ricondurre la documentazione all’organizzazione documentaria generata dal soggetto produttore.

Affermatosi in Germania e Francia nel corso del secolo XIX, in contrapposizione alla scuola di pensiero del metodo per materia, si tratta di un criterio che implica un approfondito studio delle competenze e dell'organizzazione del produttore dei documenti e delle sue interrelazioni con gli altri soggetti di un determinato contesto storico-istituzionale. Definito provenienz prinzip in Germania, principle of origin nel Regno Unito, procedencia in Spagna, herkomstbeginsel nei Paesi Bassi, in Italia è chiamato “metodo storico” ed è altresì noto come “principio di provenienza”, “principio della registratura”, “metodo oggettivo” o “principio della ricostituzione dell'ordine originario” (Elio Lodolini). In alcuni casi viene utilizzata l’espressione alternativa “rispetto dei fondi” (Natalis de Wailly), che più precisamente indica la sola salvaguardia dell’integrità di un singolo fondo archivistico, evitando dunque commistioni fra fondi prodotti da soggetti diversi ma consentendo rimaneggiamenti all’interno di ogni fondo (anche per materia).

            Entrando più nello specifico, il metodo storico è finalizzato ad esplicitare il rapporto tra le funzioni svolte dal soggetto e i documenti prodotti, i quali risultano collegati tra loro da un vincolo archivistico costituitosi contestualmente alla formazione dei documenti stessi. A tal proposito risulta fondamentale far riferimento agli elementi formali dei documenti e alle segnature archivistiche, decifrati sulla scorta dei criteri che il produttore adottava per gestire la propria documentazione, e alle modifiche che tali elementi subirono nel tempo, sintomo di trasformazioni istituzionali o di predominanza di determinate competenze rispetto ad altre. L'utilizzo di un titolario di classificazione, un sistema precostituito di partizioni e sotto-ripartizioni astratte gerarchicamente ordinate, individuato analizzando le competenze dell'ente, rappresenta il metodo rigorosamente più scientifico per consentire la sedimentazione dei documenti prodotti, basandosi su un ordine logico-funzionale che rispecchi storicamente lo svolgimento dell'attività svolta. L'applicazione del metodo storico è dunque ampiamente agevolata dalla presenza di uno schema di classificazione fissato in sede di formazione documentale –  al quale ricondurre il materiale documentario – che possa esplicitare il vincolo archivistico esistente tra gli atti. Il titolario risulta più efficiente, anche in relazione al suo uso per il riordinamento storico, se costruito in base alle funzioni che si protraggono nel tempo, piuttosto che tenendo conto dell’organizzazione degli uffici in cui si articolano gli enti produttori, sottoposti il più delle volte a delle frequenti riorganizzazioni.

Ma perché questo tipo di ordinamento si definisce “metodo storico”? L’espressione si deve a Francesco Bonaini, direttore dell'Archivio di Stato di Firenze e soprintendente degli Archivi toscani nel corso del secolo XIX: “non perché fosse fatto per servire e giovare alla storia, ma perché aveva il suo fondamento nella storia e a questa si ispirava[1]”, nel senso che “la ricostituzione dell'ordine originario delle carte si basava sulla storia dell'istituto e dell'archivio[2]”. Affiancato da valenti archivisti quali Cesare Guasti e Luciano Banchi, nella sua veste di soprintendente affidò a Salvatore Bongi il compito di riordinare l'Archivio di Stato di Lucca sulla base del metodo storico, attività che sfociò nella pubblicazione di quattro apprezzati volumi di Inventari, dal 1872 al 1888[3], caratterizzati, sotto il profilo concettuale, dal collegamento tra la descrizione sistematica e generale dei fondi e quella più o meno dettagliata di ciascuno di essi, nonché da un'ampia storia delle istituzioni produttrici delle carte.

            Non furono soltanto Bonaini e la scuola archivistica toscana a teorizzare ed applicare in Italia il principio di provenienza. A Genova esso si mantenne costante nel tempo e qualche tentativo di modificare l'ordine originario, nel secolo XIX, fu ben presto abbandonato; a Cagliari gli archivisti, in un ambiente sostanzialmente estraneo al movimento dell'Enciclopedia, riuscirono, almeno in alcuni casi, a mantenere l'integrità delle serie dell'archivio, mentre in altri dovettero applicare quello per materia, sulla base delle istruzioni impartite da Torino; a Roma Costantino Corvisieri, incaricato il 4 gennaio 1817 dalla Luogotenenza generale del re per Roma e le province romane di stendere una relazione sui diversi archivi di stato e governativi esistenti nella provincia romana, scrisse sulla necessità di ritrovare le classi di originaria attinenza delle carte ai fini di un corretto riordinamento; a Palermo Giuseppe Silvestri, soprintendente generale degli archivi siciliani dal 1852, poi direttore dell'Archivio di Stato di Palermo, si dichiarava deciso sostenitore del metodo storico, affermando che all'infuori di esso non si potesse praticare la scienza archivistica; a Venezia il direttore dell'Archivio di Stato, Teodoro Toderini, negli anni 1870 criticò severamente i sistemi di ordinamento che modificavano la disposizione originaria delle carte; a Bologna Carlo Malagola, direttore dell'Archivio di Stato a partire dal 1882, definì il metodo storico il più semplice e il più naturale; a Parma l'omologo direttore – dal 1846 al 1890 – ordinò secondo il principio di provenienza i nuovi versamenti e ricostituì serie autonome per vecchi uffici, riuscendo per i più a rispettarne l'originaria fisionomia.

            L’“ordine storico” degli archivi fu legislativamente prescritto in Italia dal regio decreto 2552 del 27 maggio 1875[4]: “gli atti di ciascuna sezione sono disposti separatamente per dicastero, magistratura, amministrazione, corporazione, notaio, famiglia, o persona, secondo l’ordine storico degli affari o degli atti” (art. 7). In ambito internazionale il primo Congresso internazionale degli archivisti e dei bibliotecari[5], tenuto a Bruxelles nel 1910, riaffermò l'ordinamento secondo il principio di provenienza. Tale principio fu espresso anche nel Codice internazionale di deontologia degli archivisti[6], approvato dall'Assemblea generale del Consiglio internazionale degli archivi il 6 settembre 1996 a Pechino: “gli archivisti trattano, selezionano e conservano gli archivi nel loro contesto storico, giuridico e amministrativo, rispettando quindi il principio di provenienza, tutelando e rendendo evidenti le interrelazioni originarie dei documenti” (art. 2).

            Ma come ci si regola con le pratiche in corso di trattazione, transitate dall'ufficio produttore ad un altro che ha gestito i documenti per la trattazione degli affari di propria competenza? In tal caso possono sorgere dei dubbi su quale sia l'ordine originario. Elio Lodolini propende per la seconda opzione, ritenendo che tutte le trasformazioni subite dalle carte durante la loro vicenda amministrativa debbano essere mantenute, senza considerare che l’ultimo ufficio detentore può aver aggiunto la propria documentazione alle pratiche già iniziate presso l'ufficio predecessore, ovvero può aver addirittura posto annotazioni ed aggiunte sui singoli documenti. In tal senso vengono ritenuti ammissibili i rimaneggiamenti delle carte derivanti da necessità pratiche dell'amministrazione che ha ereditato le competenze di quella produttrice, ma non quelli derivanti da ragioni teoriche.

            E in merito alla documentazione prodotta nei paesi che per vicende dinastiche o in seguito a trattati di pace hanno acquisito o perduto porzioni di territorio? In questo caso il principio di provenienza impedisce lo smembramento della documentazione, se parte di essa sia riferita a territori che in epoca successiva siano transitati in una circoscrizione amministrativa diversa o siano stati ceduti ad un altro stato. Nel caso il materiale documentario, per motivi diversi, sia stato asportato dalla collocazione originaria – parzialmente o totalmente – deve essere dunque ricondotto all'ente che lo ha prodotto. È questo il motivo per il quale, ad esempio, l'Austria conserva a Vienna gli archivi degli organi centrali dell'Impero austro-ungarico nella loro integrità. Il principio di provenienza si contrappone a quello di territorialità (o appartenenza), che teorizza, al contrario, il trasferimento della documentazione nelle nuove circoscrizioni territoriali venutasi a creare. A tal proposito è possibile ricordare l'applicazione di quest'ultimo durante l'accordo di Praga del 18 maggio 1920 con la Cecoslovacchia, nel contesto della dissoluzione dell'impero citato, oltre ad una discreta diffusione in età moderna. Esso è stato qualche volta utilizzato dopo la creazione di nuove province italiane, con la conseguente istituzione di nuovi archivi di stato, stralciando e trasferendo archivi da un istituto di conservazione all'altro.

            Un’ultima domanda sorge spontanea. Ma perché è così importante ricomporre a tutti i costi l’ordine originario? Non si potrebbe ricorrere a delle comode aggregazioni per argomento, per cronologia, per forma documentaria? Ebbene, la ricostruzione della struttura organizzativa originale è l’unica che consente di mostrare in che modo il soggetto produttore ha operato nel corso della sua attività, e dunque è la sola in grado di fornire un rapporto causa-effetto tra tutti i documenti prodotti. Applicando un criterio artificioso ideato ex novo distruggeremmo il vincolo originario che si è instaurato all’epoca della formazione delle carte e daremmo vita a una mera collezione di documenti, magari graziosamente raggruppati per colore o per formato, ma privi di un senso logico che li correli l’un l’altro.

            In conclusione, credo che le parole di Lodolini possano sintetizzare brillantemente l’essenzialità del concetto di metodo storico:

Il principio dell'ordinamento archivistico è, a nostro avviso, quello dell'assoluta ricostituzione dell'ordine originario […]. Uno solo è il principio, una sola la metodologia della sua applicazione, si tratti dell'archivio di documenti scritti su tavolette di argilla di un tempio del vicino Oriente di 5000 anni fa, dell'archivio della casa di un mercante del medioevo o dell'archivio di uno Stato dell'età contemporanea; si tratti di un archivio formato da documenti scritti in una lingua occidentale con l'alfabeto latino o in una lingua dell'Oriente in ideogrammi[7].



[1]Antonio PANELLA, Francesco Bonaini, in “Rassegna degli Archivi di Stato”, XVII/2 (1957), p. 187.

[2]Elio LODOLINI, L'ordinamento dell'archivio: nuove discussioni, in “Rassegna degli Archivi di Stato”, XLI/1-2-3 (1981), p. 41.

[3]Inventario del R. Archivio di Stato in Lucca, Lucca, 1872-2000. I testi furono inseriti nella collana “Documenti degli Archivi Toscani”. Ulteriori volumi furono pubblicati dai successori di Bongi, nel secolo XX: il quinto volume, a cura di Eugenio Lazzareschi, nel 1946; il sesto, a cura di Domenico Corsi, nel 1961; il settimo, a cura di Giorgio Tori, Arnaldo D'Addario, Antonio Romiti, nel 1980; l'ottavo, a cura di Laurina Busti e Sergio Nelli, con direzione e coordinamento di Giorgio Tori nel 2000.L'opera fu definita “il capolavoro dell'archivistica italiana” da D'Angiolini e Pavone nell'introduzione alla Guida generale degli Archivi di Stato italiani.

[4]Trattasi del primo regolamento generale sugli archivi in Italia, basato sui pareri espressi dal Congresso internazionale di statistica (1867) e della Commissione Cibrario (1870). È rilevante notare come la ricostituzione dell'ordine originario fosse prescritta dalla legge italiana come unico metodo di ordinamento fin dal 1875, con divieto di adottarne uno diverso. Tale metodo rimase definitivamente acquisito, venendo sempre riconfermato nella successiva normativa.

[5]Nel congresso la rappresentanza ufficiale sia degli archivi che delle biblioteche d'Italia – da parte, rispettivamente, dei Ministeri dell'interno e della pubblica istruzione – fu affidata ad Eugenio Casanova.

[6]Apparso su “ANAI Notizie”, IV/1-2 (1997), pp. 9-12. La traduzione in lingua italiana è a cura di Marco Carassi.

[7]Elio LODOLINI, L'ordinamento dell'archivio: nuove discussioni, in “Rassegna degli Archivi di Stato”, XLI/1-2-3 (1981), p. 56.


*L’articolo trae ispirazione e, in alcuni passi più specialistici, è direttamente mutuato dalla tesi di dottorato di ricerca in “Scienze documentarie, linguistiche e letterarie” dal titolo “Ordinamento e descrizione degli archivi: gli strumenti di ricerca degli Archivi di Stato di Benevento e Trento e dell’Archivio provinciale di Trento” (tutor: prof.ssa Linda Giuva), che chi scrive ha discusso il 9 luglio 2021 presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Si rimanda a tale lavoro per i riferimenti bibliografici.

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