"Politiche dell'immigrazione" nell'antica Atene. Tra accoglienza, interessi e qualche sorpresa


«Di tutte le miserie umane la più amara è questa:
conoscere così poco da non avere controllo su niente»
Erodoto

V sec. a. C.: come vivevano gli stranieri ad Atene e nell’Attica[1]

Nel V sec. a.C. la popolazione dell’Attica era costituita da circa 40.000 maschi adulti, cittadini liberi, da un alto numero di schiavi e da un numero di residenti stranieri che si aggirava intorno alle 10.000 unità. I numeri di riferimento non  comprendono le donne e i bambini. I residenti stranieri erano chiamati meteci (il termine indicava “coloro che avevano cambiato residenza” quindi gli immigrati, o “coloro che coabitavano” con i cittadini).
I meteci erano presenti specialmente ad Atene ma anche nella gran parte delle città greche (faceva eccezione Sparta dove non erano ammessi stranieri).
È interessante sapere che ad Atene vi fu una sostanziosa presenza di residenti stranieri, privi del diritto di cittadinanza. Ai filosofi, come Aristotele, e a tutti gli altri artisti ed intellettuali che vennero ad Atene si associarono salariati ed operai che svolsero umili mestieri, giudicati indegni di un cittadino libero. Occorsero molti decenni perché a questi stranieri fosse assegnato uno stato giuridico, cosa che non avvenne con un solo provvedimento, ma ebbe inizio con Solone, all’inizio del VI sec. a. C.. Di preciso, con Clistene, alla fine del VI sec., si ebbero primi sostanziali interventi, si estrinsecò completamente nella prima metà del V sec., rimanendo invariato fino alla fine del IV sec. a.C.
Nel V e nel IV sec. a.C. diventava meteco ogni individuo che risiedeva ad Atene per più di un mese di tempo [2].
Non era comunque automatica l’acquisizione della condizione di meteco, ma richiedeva la presenza di un prostates, un cittadino che garantisse per lui e lo assistesse, ove necessario, anche in tribunale. Non si può dire con assoluta certezza fino a che punto il prostates intervenisse nella vita e nelle attività dell’assistito; non si può escludere che si limitasse a presentarlo all’assemblea del demo (l’Attica era divisa in 140 demi), nel quale il meteco intendeva stabilire la sua residenza. Il meteco che non aveva un prostates veniva processato e rischiava di essere venduto come schiavo. Una volta accettato nel demo come residente doveva fittare una casa in quanto non aveva il diritto di possedere beni immobili, né di possedere terreni: quindi tutte le sue proprietà erano costituite da beni mobili.
I meteci abitavano per lo più ad Atene, ma molti risiedevano al Pireo. Dovere del meteco era quello di pagare una tassa, il metoikion di dodici dracme l’anno per gli uomini e di sei per le donne. La cifra, uguale per tutti i meteci, non era alta ma serviva, essendo una tassa sulla persona, a determinare il distinguo fra il meteco ed il cittadino libero e ne segnava l’inferiorità, non essendo il cittadino soggetto a pagare questo tipo di tassa.
Il meteco aveva l’obbligo di combattere per la città nel corpo degli opliti, cioè nella fanteria pesante, se il suo censo glielo consentiva, o come rematore nella flotta se aveva un reddito basso. Non poteva comunque militare nella cavalleria, privilegio riservato ai cittadini, non poteva inoltre abbandonare la città in tempo di guerra, non poteva contrarre matrimonio con una ateniese, non aveva diritti politici: non poteva partecipare alle assemblee né accedere alla magistratura. Poteva tutelare i propri diritti in tribunale, ma la sua vita valeva meno di un cittadino ateniese. Per dare l’idea della differenza, fra cittadini e meteci,  si pensi che se un cittadino uccideva un meteco aveva come pena l’esilio, ma se uccideva un ateniese veniva condannato a morte. Insomma la sua vita valeva meno di quella di un ateniese.
Tuttavia, aveva la possibilità di partecipare con limitazione alle funzioni religiose, aveva l’accesso ai templi e libertà di culto. In sostanza lo stato di meteco comportava una condizione di “quasi cittadinanza” anche perché gli immigrati costituivano un insieme molto eterogeneo. Grandi filosofi, poeti, intellettuali, artisti provenienti da tutto il  mondo greco soggiornarono a lungo ad Atene, ma vi erano anche coloro che, spinti da guerre o carestie, o situazioni economiche molto disagiate, affluivano dalle zone abitate dai barbari, con l’esigenza di procurarsi il necessario per vivere. Vi erano poi carpentieri, panettieri, cuochi, asinai, salariati, ma anche mercanti e banchieri ed esuli, espulsi dalla propria patria per motivi politici.
La grande maggioranza dei meteci era comunque costituita da persone che possedevano una technè, cioè un’arte, un mestiere, una professione: erano queste le persone di cui la città aveva bisogno, che lavoravano e producevano ricchezza e che la città accoglieva con favore («la città ha bisogno dei meteci a causa del gran numero delle attività – technai – e a causa della marina» si legge dall’operetta Costituzione degli ateniesi [3] )
Che Atene avesse bisogno dei meteci è confermato da fonti del IV sec., nelle quali viene sostenuta la necessità di trovare il modo di attirare di nuovo i meteci, i quali negli ultimi tempi si erano fortemente ridotti di numero a causa della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), in conseguenza alla quale Atene non rappresentava più il centro commerciale e culturale della Grecia.
Molto significativa è l’opera di Senofonte Le entrate[4] nella quale l’autore presenta varie proposte per risolvere la crisi economica della città. Una di queste proposte riguarda proprio i meteci: Senofonte consiglia di cercare di attirare i meteci i quali costituiscono «una delle migliori fonti di reddito in quanto si mantengono da soli, non ricevono alcun compenso per i molti vantaggi che procurano agli stati ed in più pagano il metoikion».
Senofonte si rendeva conto che era necessario migliorare le condizioni di vita dei meteci al fine di favorire l’afflusso e perciò proponeva di esentare i meteci dal servizio militare nella fanteria come opliti e concedere loro di prestare servizio nella cavalleria, consentire a chi ne facesse richiesta di costruire la casa nelle zone edificabili diventandone proprietari, istituire una magistratura per la loro tutela, in modo che «molti di più e migliori» avranno desiderio di venire ad abitare ad Atene.
Gli ateniesi furono sempre consapevoli dell’utilità dei meteci per la loro economia ed interpretarono l’immigrazione non come fatto negativo e da combattere, ma come fenomeno da governare e da incoraggiare nell’interesse generale dei cittadini. Conseguentemente ritennero importante far vedere ai greci e ai barbari che Atene era, sotto ogni aspetto, «il centro del mondo ed il luogo dove era più bello vivere».
Scriveva infatti Senofonte: «Chi non avrà bisogno della nostra città, a cominciare dagli armatori e dai mercanti non avranno bisogno coloro che possiedono grandi quantità di grano e di vino () e di olio e di bestiame, e quelli che sono in grado di arricchirsi grazie alla loro intelligenza ed al loro denaro, e gli artigiani, e i sofisti ed i filosofi ed i poeti e quelli che fanno uso delle loro opere, quelli che desiderano vedere cose degne di essere viste e ascoltare cose degne di essere ascoltate, sacre e profane; e inoltre quelli che dovevano rapidamente vendere o comprare molte merci, tutti costoro dove potrebbero meglio che ad Atene ottenere ciò che desiderano?»
Insomma, gli ateniesi avevano capito che per attirare gli immigrati che, venendo a risiedervi e ad esercitare la loro attività producevano ricchezza e favorivano l’economia dell’intera collettività, dovevano anche dimostrare che gli stessi stranieri, di qualunque condizione fossero, avevano bisogno di Atene.





[2] Per approfondimenti sulla storia greca è utile il manuale:  
C. Bearzot, Manuale di storia greca, Bologna 2005.
[3] La Costituzione degli Ateniesi (in greco antico Ἀθηναίων πολιτεία, Athēnaíōn polīteíā) è un'opera antica attribuita ad Aristotele e ai suoi allievi, di recente a Crizia, che descrive il regime politico dell'antica Atene. Il trattato fu composto tra il 330 e il 322 a.C.
[4] Poroi (in greco antico: Πόροι), tradotto anche con il titolo Modi e mezzi o Le Entrate, è un'opera di Senofonte scritta nel 354 a.C., a cinquanta anni dalla sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso con la città prossima alla rovina finanziaria. Secondo alcuni studi si tratterebbe dell'ultima opera scritta da Senofonte. Non conosciamo l’edizione dell’opera utilizzata per le citazioni riportate in questo articolo.


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