Storia - Memoria: un derby da non disputare.


di Antonio Rubino

«La memoria collettiva ha costituito un’importante posta in gioco nella lotta per il potere condotta dalle forze sociali. Impadronirsi della memoria e dell’oblio è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi, degl’individui che hanno dominato e dominano le società storiche. Gli oblii, i silenzi della storia sono rivelatori di questi meccanismi di manipolazione della memoria collettiva.»[1]
La voce autorevole di Jacques LeGoff ci mette in guardia sull'importanza della memoria. E precisamente di quella memoria collettiva che nella felice definizione di Pierre Nora è:
«il ricordo, o l'insieme dei ricordi, più o meno conosciuti, di un'esperienza vissuta o mitizzata da una collettività vivente della cui identità fa parte integrante il sentimento del passato»[2].

Un acceso revisionismo storico (guidato per lo più da giornalisti e non affidato a storici di professione), ma anche un acceso dibattito sul fiorire di celebrazioni di tante “giornate della memoria” e "giorni del ricordo", pongono all'attenzione dello storico un nuovo problema legato a uno 'scontro' che può apparire addirittura assurdo: quello tra storia e memoria.
Appare assurdo perché sembra semplice e scontato legare la memoria alla storia. E questo legame rimane essenziale e saldo finché restiamo nell'ambito di logici distinguo, spesso molto poco accessibili a chi si accosta alla storia senza studi filosofici e solide basi teoriche[3].
Per provare dunque a fare chiarezza su questa frizione tra storia e memoria, potremmo usare degli esempi che, vividi, riemergono da carte di archivio e possono aiutarci.

Il 24 febbraio del 1864 un gruppo di briganti, appartenenti alla banda Masini, uccide, nei pressi di Padula (Sa), Nicola Raso cittadino di Viggiano (Pz). Il malcapitato, ucciso con diversi colpi di arma da fuoco e da taglio, con gli occhi cavati e la lingua mozzata, era un innocente. La sua “colpa” agli occhi dei briganti era quella di essere un operatore delle linee telegrafiche dello Stato Italiano. Un uomo onesto che si guadagnava da vivere facendo il suo lavoro di tecnico. Un traditore che si era venduto allo stato dei piemontesi agli occhi dei briganti.

I documenti della sentenza riguardo la banda Masini, emessa dal Tribunale Militare di Potenza il 6 Maggio 1865, rappresentano una delle fonti per lo storico. Documenti che vanno calati in un contesto, confrontati, analizzati alla luce dell'analisi dei tanti punti di vista di quel periodo, nel tentativo di ricostruire i fatti. Il ruolo dello storico è un po’ come quello di un magistrato (ma alla fine non emette sentenza, ricostruisce - faticosamente - i fatti). 
Spesso, lo storico è costretto ad interpretare i fatti. Non è detto che non possa prendere posizione. Ma se dovesse basarsi sulla "memoria" e sui "punti di vista" di una parte rinuncerebbe a uno degli elementi fondamentali della Storia: la sua complessità
Non discutiamo della "oggettività" della storia, perchè apriremmo un altro dibattito, ma è in gioco un concetto fondamentale: semplificare la storia sulla base di un punto di vista significa oltraggiare la verità ?
A far storia in base alla memoria, ascolteremmo, magari, il ricordo di uno dei manutengoli dei briganti che ci dirà le peggior cose delle sue condizioni economiche e che coloro che avevano ottenuto un posto con l'Amministrazione delle linee del Telegrafo erano dei venduti che campavano alle spalle della povera gente.
Molto del revisionismo al quale facevamo riferimento prima, non ultimo addirittura un movimento neo-borbonico, hanno contribuito a mitizzare la figura dei briganti in Basilicata e più in generale nel Sud Italia. Una mitizzazione che, mettendo in discussione il processo di unificazione italiana, si basa sulla memoria di alcuni episodi storici presentando una guerra tra un invasore straniero (lo Stato Italiano) e l’eroica resistenza del popolo (i briganti) che combatteva per la libertà e contro i soprusi.
Una certa faciloneria porta vedere la storia del Sud come una "storia dei vinti". Certo, c'erano anche coloro che avversavano l'Unità d'Italia ed è compito dello storico riportare le loro voci. Ma, se scrivendo la storia si volesse ascoltare solo quella voce si commetterebbe un errore.


Uno storico (serio) interpretando i fatti[4], calandoli nel contesto, come può interpretare l’episodio di sangue del 1864 (che non è l’unico) come un atto di guerra di un popolo che si rivolta contro un invasore? Come sarebbero valutati gli stupri delle mogli e delle figlie dei contadini assaliti dai briganti nelle buie notti della Lucania post-unitaria? 
D'altronde, se volessimo scrivere la storia di questo periodo sulla base della memoria di qualche abitante di Pontelandolfo o Casalduni, dovremmo scrivere una storia ancora diametralmente opposta? 
Ecco che, allora, emerge chiaramente la necessità di una scissione tra la memoria e la storia. La storia è la stessa, la memoria non può essere la stessa. "La memoria può essere pacificata", la storia deve andare al di là e considerare i punti di vista di tutti!     
Volessimo oggi scrivere la storia sulla base della memoria della famiglia del povero Nicola Raso, trucidato dai briganti, avremo un racconto obiettivo e che rispecchia la complessità del processo storico post-unitario nell'Italia Meridionale? Sarebbe utile semplificare la storia raccontandola attraverso l'autobiografia di Carmine Crocco?
La storia non può essere la memoria soggettiva di chi ha vissuto in un certo modo quegli episodi.

Altro filone molto fortunato della pubblicistica degli ultimi decenni è stato quello sulla resistenza. È forse proprio in quest’ambito che è emersa con forza la necessità di operare il distinguo tra storia e memoria. (Io sono tra quelli che, sia chiaro, sono ben felice che a vincere quello scontro siano stati i partigiani e non i nazi-fascisti). 
La storia non può essere (ri)scritta prendendo soltanto il punto di vista e la memoria di chi ha vissuto, con pieno coinvolgimento quei giorni.
Sarebbe storia quella scritta ascoltando la memoria di un familiare di uno dei fascisti uccisi dai partigiani o di una delle tante giovani vittime, anche donne, che troviamo in uno dei libri di Giampaolo Pansa? La mamma che si è vista uccidere i figli da altri italiani in camicia nera potrà avere la stessa memoria?
Potremmo continuare ancora a lungo. Lasciamo la parola a un grande divulgatore, il prof. Alessandro Barbero, che su questo tema ha avuto parole chiarissime. 
Buona visione e buon ascolto ↥





[1] J. Le Goff, Storia e Memoria, Torino, Einaudi, 1986.
[2] P. Nora, Mémoire collective, in Jacques Le Goff (a cura di), La nouvelle histoire, Paris, Retz, 1978, p. 398.
[3] Una delle letture illuminanti sul tema è: P. Ricoeur, La Memoria, la storia, l’oblio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003. 
[4] Un libro molto utile per orientarsi nella storia dell'Italia Meridionale post unitaria è: C.Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870, Bari-Roma, Laterza, 2019.

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